venerdì 29 Marzo 2024

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha partecipato alla tavola rotonda dell’Ambrosetti Club a Roma a Palazzo Rospigliosi. Ecco il suo lungo intervento:

Bankitalia, Visco: “Non condivido allarmi su tassi”

“Le ripercussioni dell’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia continuano a gravare sull’economia globale, che da alcune settimane sta risentendo anche delle conseguenze del nuovo peggioramento della crisi sanitaria in Cina. Nel quarto trimestre dello scorso anno, in particolare, l’attività produttiva avrebbe rallentato nei paesi avanzati, riflettendo la generalizzata perdita del potere di acquisto dei redditi dovuta all’inflazione. Anche l’economia cinese si sarebbe indebolita, dapprima per le misure di interruzione della produzione imposte in ottobre e in novembre per contenere la diffusione dei contagi da Covid-19; successivamente, l’effetto positivo dell’allentamento di queste misure potrebbe essere stato più che compensato da quello negativo determinato dalla nuova forte ondata di infezioni, riflesso anche di un livello di immunizzazione della popolazione ancora molto basso. 

Secondo le nostre valutazioni la crescita del commercio internazionale avrebbe frenato nel 2022 (al 5,6 per cento), pur rimanendo su valori elevati nel confronto storico. Le più recenti previsioni delle istituzioni internazionali prefigurano una netta decelerazione del prodotto mondiale e del commercio anche per l’anno in corso, nonostante la prevista ripresa in Cina, per effetto dei prezzi ancora alti dell’energia, della conseguente debolezza del reddito disponibile delle famiglie e dell’intonazione più restrittiva delle politiche monetarie nei paesi avanzati. 

Per l’Italia stimiamo che, nonostante gli effetti fortemente negativi delle tensioni geopolitiche e del conflitto in Ucraina, la crescita del prodotto nel 2022 dovrebbe essere stata prossima al 4 per cento. I livelli precedenti lo scoppio della pandemia sono stati pienamente recuperati (superandoli di quasi due punti alla fine del terzo trimestre) ma, rispetto al picco raggiunto all’inizio del 2008, il prodotto resta ancora inferiore di oltre tre punti percentuali (in termini sia totali sia pro capite). 

Nell’ultimo trimestre dello scorso anno l’attività economica si sarebbe indebolita. Essa avrebbe risentito dell’attenuazione della ripresa nel settore dei servizi, specialmente nel commercio, nei trasporti e in quelli legati alle attività ricreative Le sfide dell’economia italiana nell’attuale contesto europeo Intervento di Ignazio Visco Governatore della Banca d’Italia Ambrosetti club, phygital meeting Palazzo Rospigliosi Roma, 23 gennaio 2023 2 e turistiche – ripresa che in estate, dopo la fase più intensa della crisi sanitaria, era stata particolarmente accentuata.

Vi avrebbe contribuito anche il calo della produzione industriale, in larga parte ascrivibile ai rincari dei prodotti energetici. Dallo scorso luglio i comparti in maggiore flessione risultano infatti quelli con il più intenso impiego di input energetici. Nel complesso dei settori non energetici dall’inizio del 2021 l’aumento del costo dell’energia avrebbe determinato un rialzo dei costi complessivi per unità di prodotto delle imprese pari a quasi il 7 per cento, di cui circa la metà ascrivibile alla sola energia elettrica.

Nel settore delle costruzioni, che anche grazie agli incentivi pubblici si era ripreso con particolare forza dalla crisi sanitaria, dopo la diminuzione già segnata nel terzo trimestre l’attività starebbe iniziando a risentire della debolezza del mercato immobiliare. Su quest’ultimo incidono sia il rialzo dei tassi sui mutui sia il protrarsi dell’elevata inflazione, con la conseguente riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. 

Le nostre indagini segnalano che nell’ultima parte dello scorso anno i problemi di approvvigionamento di materie prime e di input intermedi, che da diversi trimestri frenano l’attività produttiva, hanno registrato una leggera attenuazione. Essi ancora interessano, tuttavia, circa il 30 per cento delle aziende dei servizi e dell’industria manifatturiera e approssimativamente la metà di quelle delle costruzioni.

Dal lato della domanda, la spesa delle famiglie, cresciuta in misura particolarmente robusta nel secondo e nel terzo trimestre, tanto da riportarsi per la prima volta al di sopra del livello di fine 2019, avrebbe rallentato nell’ultima parte dell’anno. Essa avrebbe risentito della debolezza del reddito disponibile in termini reali, nonostante gli interventi governativi volti a calmierare i prezzi energetici e ad attenuarne l’impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto per i nuclei meno abbienti, sui quali più hanno inciso i rincari dell’energia e l’aumento del costo dei prodotti alimentari, anch’esso in larga misura conseguenza del conflitto in Ucraina. 

La dinamica degli investimenti si era indebolita già nel terzo trimestre, riflettendo la riduzione della spesa per costruzioni a fronte di un’accelerazione di quella in impianti e macchinari. Secondo nostre valutazioni, corroborate dai dati sul valore dei contratti di leasing, nel quarto trimestre gli investimenti avrebbero ristagnato. Le indagini condotte dalla Banca d’Italia fra novembre e dicembre indicano che le imprese considerano le condizioni per investire ancora poco favorevoli.

Per quanto riguarda l’occupazione sono aumentate le posizioni lavorative a tempo indeterminato, a seguito delle numerose trasformazioni di contratti temporanei attivati durante il 2021. Dopo essersi stabilizzata nel terzo trimestre sui livelli elevati del periodo precedente, in ottobre e novembre l’occupazione complessiva sarebbe tornata a salire, sia pure lievemente; le indagini sulle aspettative a breve termine delle imprese confermano il possibile proseguimento della crescita dei posti di lavoro. La dinamica delle retribuzioni resta peraltro moderata, anche per il protrarsi dei processi negoziali in settori, specialmente nei servizi, dove è ancora alta la quota di dipendenti in attesa di rinnovo del contratto collettivo. 3

In ottobre e novembre l’inflazione, misurata dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo, ha raggiunto un nuovo picco (12,6 per cento), per poi scendere leggermente in dicembre (di 0,3 punti percentuali). Restano straordinariamente elevati i rincari nel settore dell’energia, dove la crescita sui dodici mesi si colloca al di sopra del 60 per cento, sia per il mercato regolamentato sia per quello “libero”. Considerando il complesso degli effetti diretti e indiretti, nella media del quarto trimestre più del 70 per cento dell’inflazione generale era riconducibile ai rincari dell’energia; per lo stesso periodo, valutiamo che le misure governative a favore delle famiglie abbiano mitigato la dinamica dei prezzi al consumo per oltre un punto percentuale. 

Le proiezioni più recenti per l’economia italiana presentate nel Bollettino economico della Banca d’Italia appena pubblicato, ancorché puntuali, continuano ad avere un carattere necessariamente indicativo dato l’attuale contesto di forte incertezza, connessa soprattutto con l’evoluzione del conflitto in Ucraina. La dinamica dei prezzi del gas è esemplare sotto questo aspetto: alla vigilia della pandemia il gas era scambiato a poco più di 10 euro per megawattora; era salito a 20 euro nel gennaio 2021 e a 50 nell’estate, in seguito alle prime riduzioni dei flussi di gas dalla Russia; con lo scoppio della guerra, le quotazioni hanno prima superato i 200 euro, poi sono scese sotto i 100, sono risalite a 350 in agosto e sono oggi ridiscese attorno ai 60 euro. Insomma, sembra di essere sulle montagne russe, e in queste condizioni non solo è difficile fare previsioni macroeconomiche ma anche, per famiglie e imprese, programmi di spesa e di investimento di particolare intensità. In effetti, in queste condizioni la formulazione di scenari alternativi si posa necessariamente su ipotesi relativamente fragili circa l’evoluzione del conflitto e le sue ripercussioni sui mercati.

Nello scenario di base presentato nel Bollettino economico si è ipotizzato che le tensioni associate alla guerra si mantengano ancora elevate nei primi mesi di quest’anno, per ridursi gradualmente lungo l’orizzonte di previsione. Nel 2023 il Pil rallenterebbe nettamente, allo 0,6 per cento; la crescita tornerebbe poi a rafforzarsi nel prossimo biennio, grazie all’accelerazione delle esportazioni e della domanda interna, che beneficerebbe della diminuzione delle pressioni inflazionistiche e dell’incertezza. L’inflazione, salita oltre l’8,5 per cento nella media del 2022, scenderebbe di due punti quest’anno e più decisamente in seguito, portandosi al 2 per cento nel 2025.

In uno scenario particolarmente avverso – in cui si ipotizzano, oltre alla sospensione permanente delle forniture di materie prime energetiche dalla Russia, un nuovo forte rincaro dell’energia, una maggiore incertezza, un più marcato indebolimento del commercio mondiale e un accentuato irrigidimento delle condizioni di offerta dei finanziamenti – il prodotto si ridurrebbe di quasi l’1 per cento sia nel 2023 sia nel 2024 per tornare a ritmi di crescita moderati solo nel 2025. L’inflazione salirebbe ulteriormente, avvicinandosi al 10 per cento quest’anno, ma poi ridiscenderebbe a poco più del 4 nel 2024 e a circa il 2 per cento nel 2025, come nella proiezione di base. Questo scenario non tiene conto di possibili nuovi interventi introdotti per mitigare gli effetti di questi eventuali sviluppi congiunturali più sfavorevoli, né dell’impatto che essi potrebbero avere sul costo del debito. 

Secondo gli indicatori congiunturali più recenti, il Pil dell’area dell’euro avrebbe sostanzialmente ristagnato nel quarto trimestre dello scorso anno. In dicembre l’inflazione al consumo è stata pari al 9,2 per cento, un livello ancora molto elevato, pur se al di sotto del picco toccato in ottobre. La componente di fondo si è invece progressivamente rafforzata, al 5,2 per cento, riflettendo anche il consueto ritardo nella trasmissione della dinamica dei costi dell’energia sui prezzi finali di beni e servizi.

Secondo le stime puntuali dello scenario di base delle proiezioni degli esperti dell’Eurosistema diffuse lo scorso mese la crescita del Pil nel 2023 nel complesso dell’area è stata rivista al ribasso di quasi mezzo punto, allo 0,5 per cento; il prodotto tornerebbe ad accelerare nel 2024, all’1,9 per cento. Le proiezioni d’inflazione sono state invece riviste al rialzo, al 6,3 per cento nel 2023 e al 3,4 nel 2024, per via di una più diffusa e persistente trasmissione ai prezzi al consumo delle pressioni derivanti dai rincari delle materie prime energetiche e dei beni intermedi e di sensibili incrementi salariali (dell’ordine del 5 per cento nel 2022 e nel 2023). Le prospettive riguardo all’attività economica e la velocità di riduzione dell’inflazione restano tuttavia molto incerte.

Nonostante queste stime, non vi sono al momento segnali di una intensa spirale tra prezzi e salari. La dinamica retributiva si è lievemente accentuata da ottobre, anche per effetto dell’incremento del salario minimo in alcuni paesi, tra cui la Germania, i Paesi Bassi e, per l’indicizzazione automatica ai prezzi, in Francia, nonché per l’operare di meccanismi di indicizzazione su tutti i salari in altri paesi, in particolare in Belgio. Nel complesso dell’area la quota di retribuzioni indicizzate all’inflazione resta contenuta, un fattore che attenua il rischio di pericolosi avvitamenti tra prezzi e salari. In diversi paesi, tuttavia, sembrano esservi, nell’ambito delle negoziazioni relative ai rinnovi contrattuali, richieste di aumenti particolarmente elevati, anche per recuperare le perdite di potere d’acquisto per gli aumenti dei prezzi connessi con lo shock energetico.

Le aspettative d’inflazione a breve termine mostrano, peraltro, primi segnali di flessione; quelle sugli orizzonti più distanti restano ancorate all’obiettivo di stabilità dei prezzi, pari al 2 per cento nel medio termine. Negli ultimi mesi i rendimenti dei contratti legati all’inflazione (inflation-linked swaps) hanno registrato un deciso calo sugli orizzonti più vicini: su quello a due anni si situano oggi al 2,3 per cento (da circa il 4 all’inizio dello scorso novembre). Sugli orizzonti a più lungo termine restano, al netto dei premi per il rischio, su valori in linea con il 2 per cento. L’ancoraggio delle aspettative d’inflazione è confermato anche dai risultati dei sondaggi condotti in dicembre presso gli analisti.

Le attese delle famiglie rilevate dall’ultima indagine della BCE hanno mostrato un moderato calo su tutti gli orizzonti situandosi al 5 per cento nei prossimi dodici mesi e al 2,9 su un orizzonte di tre anni. Il loro livello, più alto rispetto alle attese dei mercati e degli operatori professionali, riflette verosimilmente il peso notevole delle componenti più volatili dell’inflazione nel paniere di consumo dei nuclei 5 meno abbienti nonché una possibile maggiore rilevanza di elementi retrospettivi nella formazione delle aspettative delle famiglie. Le attese delle imprese forniscono indicazioni contrastanti: quelle censite dalla Commissione europea segnalano, sia nell’area sia in Italia, una riduzione delle aspettative a tre mesi di crescita dei propri prezzi di vendita su livelli che non si registravano dall’ottobre 2021; anche le imprese che partecipano ai sondaggi condotti dalla Banca d’Italia hanno nel complesso segnalato previsioni di decelerazione dei propri prezzi di vendita ma attese d’inflazione ancora alte e per un prolungato periodo; è presumibile che esse abbiano particolarmente risentito, estrapolandola, dell’informazione fornita ai partecipanti alla rilevazione degli ultimi dati, molto elevati, relativi all’inflazione corrente.

In questo quadro, lo scorso dicembre il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) ha innalzato i tassi ufficiali di 50 punti base, portando il loro aumento complessivo dallo scorso luglio a 250 punti. Il Consiglio ha inoltre annunciato che essi dovranno ancora salire per favorire il tempestivo ritorno dell’inflazione all’obiettivo di stabilità dei prezzi e che le decisioni future sui tassi continueranno a essere adottate in base all’evoluzione delle prospettive d’inflazione e di crescita. I tassi di interesse di riferimento della BCE sono oggi lo strumento principale per regolare le condizioni monetarie; l’adeguamento degli altri strumenti serve a garantire che il loro contributo sia coerente con tale orientamento.

Lo scorso ottobre il Consiglio aveva pertanto deciso di rendere meno vantaggioso il costo delle operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO3); in dicembre sono inoltre stati annunciati i criteri in base ai quali si procederà, attraverso un reinvestimento parziale dei titoli in scadenza, a una riduzione misurata e prevedibile delle attività detenute nei portafogli di politica monetaria. Dall’inizio del prossimo marzo quello relativo al programma di acquisto di attività (APP) diminuirà di 15 miliardi di euro al mese in media sino alla fine del secondo trimestre del 2023; il ritmo successivo sarà definito alla luce degli andamenti della congiuntura e dei mercati. Il reinvestimento dei titoli in scadenza nell’ambito del programma per l’emergenza pandemica (PEPP) proseguirà invece pienamente almeno sino alla fine del 2024 e sarà condotto in maniera flessibile per contrastare – insieme allo strumento di protezione della trasmissione della politica monetaria (TPI) – gli eventuali rischi di una ingiustificata frammentazione dei mercati finanziari lungo i confini nazionali. 

La normalizzazione della politica monetaria nell’area dell’euro ha già compiuto passi notevoli. Superati i rischi di deflazione, dopo la crisi finanziaria globale e soprattutto quella dei debiti sovrani nell’area dell’euro, e quelli connessi con la pandemia ‒ che avevano prima richiesto uno straordinario allentamento delle condizioni monetarie con la progressiva riduzione dei tassi ufficiali (fino a portarli in territorio negativo) e poi l’eccezionale incremento del bilancio consolidato dell’Eurosistema (fino a quasi 9.000 miliardi, da circa 2.000 nel 2014) il ritorno a una situazione più equilibrata di tassi e liquidità complessiva era scontato. La politica monetaria non poteva più essere, in effetti, “the only game in town”. Se l’impatto della pandemia aveva rallentato questo ritorno, anche per l’incertezza presente sui mercati e il ritardo che le aspettative d’inflazione fino ancora all’estate del 2021 mostravano nel riportarsi sui livelli di stabilità dei prezzi definiti dal Consiglio direttivo (il 2 per cento, “simmetrico”, nel 6 medio periodo), da allora in poi la questione ha riguardato le modalità e il ritmo degli interventi, non la loro direzione.

A seguito, quindi, degli annunci e delle decisioni del Consiglio, dalla fine del 2021 i tassi di interesse (overnight index swaps) a un anno sono aumentati di 3,6 punti percentuali, al 3,2 per cento; quelli a dieci anni di 2,4 punti, al 2,6; in termini reali, utilizzando come deflatore i rendimenti dei contratti legati all’inflazione (inflation-linked swaps), essi sono oggi rispettivamente pari a circa lo 0,8 e lo 0,3 per cento, dai valori estremamente bassi di un anno fa (-4 per cento per i tassi a un anno e -2 per quelli a dieci). Il costo del credito, che riflette con ritardo i rialzi nei tassi di mercato, ha mostrato in media aumenti più contenuti: di un punto e mezzo, al 2,8 per cento, per i nuovi prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni (3,1 in Italia) e di quasi due punti, al 3,1 per cento, per i nuovi prestiti alle imprese (2,9 in Italia). Per le aziende italiane la capacità di rimborso dei debiti resta nel complesso buona, in ragione del recupero della redditività, della leva finanziaria moderata e delle elevate disponibilità liquide.

I rischi che derivano dall’inflazione sono significativi. L’esperienza storica mostra chiaramente che i consumi e gli investimenti beneficiano in modo sostanziale della stabilità dei prezzi: un’inflazione elevata e volatile complica infatti le decisioni di spesa delle famiglie e delle imprese; riduce il valore della moneta e dei risparmi; può comportare ingiustificate redistribuzioni di risorse tra le persone che tendono a colpire più duramente le frange più vulnerabili e più povere della popolazione; limita la capacità dell’economia di crescere e di creare posti di lavoro e benessere.

Questo spiega perché l’azione della politica monetaria non può che proseguire nella direzione intrapresa. Serve tuttavia che la normalizzazione proceda con la necessaria gradualità, tenendo conto che, come ho osservato, le aspettative d’inflazione a medio-lungo termine sono ancorate e non si intravedono segnali di spirali tra prezzi e salari, sebbene l’attesa accelerazione di questi ultimi debba essere attentamente monitorata. Gli allarmi che a volte vengono sollevati sugli effetti che ulteriori aumenti dei tassi ufficiali potrebbero avere sulla nostra economia non sono condivisibili: il nostro paese è in grado, proseguendo sulla strada già intrapresa delle politiche prudenti e delle riforme, di gestire le conseguenze di una graduale ma necessaria restrizione monetaria (un punto, questo, sul quale tornerò a parlare con maggiore dettaglio nell’ambito del mio intervento all’ASSIOM-FOREX, la prossima settimana). I tassi di interesse cui guardare non sono infatti quelli nominali, sui quali nel breve periodo, pur attenuata, non può non riflettersi la dinamica inflazionistica, bensì quelli reali, al netto dell’inflazione attesa, che ancora segnalano condizioni nel medio periodo di sostanziale equilibrio. 

Non condivido, allo stesso tempo, talune dichiarazioni nelle quali si sostiene che nell’area dell’euro solo una recessione, più o meno profonda, consentirà di riportare l’inflazione in linea con il nostro obiettivo di prezzi stabili. Ritengo invece del tutto possibile che, come sta avvenendo in altri paesi e come è peraltro in linea con le nostre previsioni, la crescita dei prezzi, che già mostra segnali di discesa, possa tornare al 2 per cento senza che le nostre misure arrechino all’attività produttiva 7 e all’occupazione danni particolarmente gravi, che finirebbero per rendere più difficile il conseguimento del nostro mandato nel medio periodo. Quindi, sì, ulteriori aumenti dei tassi sono nelle cose, ma continueranno a essere necessarie valutazioni attente e consapevoli dell’intensità e dei tempi della loro trasmissione a tutte le economie dell’area dell’euro, tenendo conto dell’evoluzione, in entrambe le direzioni, dei fattori alla base della dinamica inflazionistica: dai costi delle materie prime a quelli del lavoro, dall’evoluzione della domanda interna e internazionale a quella dei margini di profitto, dagli andamenti delle attività finanziarie a quelli dei debiti pubblici e privati.

Vi è ancora, come ho detto, molta incertezza sul fronte del conflitto in Ucraina e delle tensioni geopolitiche. La stessa recente riduzione del prezzo del gas, di dimensione altrettanto ampia e inattesa quanto straordinariamente ampio e inatteso, ancorché estremamente volatile, era stato l’aumento registrato nel corso dell’anno passato, va presa con un forte beneficio d’inventario, e l’alto livello di scorte conseguito in questi mesi dai paesi dell’area non sembra essere una salvaguardia sufficiente a garantire la sicurezza dell’approvvigionamento a distanza di qualche trimestre. Abbiamo visto come il rincaro dell’energia abbia finito per riflettersi in un aumento progressivo, ancora in atto, dell’inflazione di fondo, al netto cioè delle componenti più volatili quali gli stessi prodotti energetici e quelli alimentari, anch’essi influenzati dal conflitto. È presumibile che se il costo dell’energia non risalirà in modo sensibile anche l’inflazione di fondo si ridurrà in un periodo non troppo lungo riflettendone la recente forte discesa. Ma è necessario che le aspettative restino saldamente ancorate.

Anche se la direzione di marcia non può che essere quindi quella intrapresa – tenuto conto delle condizioni iniziali e a prescindere da sterili discussioni sul livello, naturale o neutrale, dei tassi ufficiali – le decisioni sul ritmo e sull’entità complessiva della normalizzazione della politica monetaria dovranno continuare a bilanciare due rischi. Se, infatti, l’inflazione registrata finora si radicasse nelle aspettative e nei processi di fissazione dei salari, il conseguimento dell’obiettivo di stabilità dei prezzi richiederebbe una più decisa risposta della politica monetaria, con ripercussioni negative più marcate sull’attività economica. Se, invece, il ritmo e l’entità della normalizzazione della politica monetaria fossero sproporzionati o il loro annuncio male interpretato, l’inasprimento delle condizioni di finanziamento potrebbe risultare più forte del necessario e la reazione di famiglie, imprese e operatori di mercato eccessiva, con rischi per la stabilità finanziaria, l’attività economica e, in ultima analisi, la stessa dinamica dei prezzi nel medio termine.

Vi è dibattito sulla relativa ampiezza di questi due rischi. Valutazioni di natura probabilistica – evidentemente, in un contesto di elevata incertezza come quello attuale, in larga parte soggettive – sono oggi particolarmente ardue. Io sono portato ad assegnare a entrambi i rischi analogo peso; non vedo, cioè, perché bisognerebbe privilegiare un possibile errore di valutazione nell’una o nell’altra direzione. In altre parole, non sono convinto che sia oggi meglio rischiare di restringere troppo anziché troppo poco. Nel valutare intensità e tempi della trasmissione monetaria, la strada migliore per evitare errori in entrambe le direzioni è quella di un approccio prudente che tenga di volta in volta conto di tutti gli elementi a disposizione per individuare 8 il passo più appropriato da compiere. Ritengo che considerare oggi alla stessa stregua, i due rischi sia in linea con l’obiettivo di stabilità dei prezzi – simmetrico, verso l’alto come verso il basso – che dobbiamo conseguire per rispettare il nostro mandato.

Al riguardo è anche importante sottolineare come la stabilità dei prezzi non dipenda esclusivamente dalla politica monetaria. Lo shock energetico ha infatti causato un mutamento delle ragioni di scambio, una “tassa” sulle economie dell’area che non è possibile rinviare al mittente e che non può essere eliminata attraverso vane rincorse tra prezzi e salari, alle quali la politica monetaria reagirebbe prontamente, né attraverso eccessivi e permanenti incrementi del debito pubblico. 

La stabilità dei prezzi richiede anche che in tutti i paesi – e in particolare in quelli in cui il debito pubblico è già particolarmente elevato – i conti dello Stato siano tenuti sotto controllo. Le politiche di bilancio possono certamente contribuire, con interventi temporanei e mirati, ad alleviare gli effetti dell’inflazione sulle fasce della popolazione più deboli, ma ciò dovrebbe avvenire attraverso una redistribuzione tra percettori di reddito, contenendo il peso dell’aggiustamento sulle future generazioni. Ciò è essenziale sia per evitare un surriscaldamento della domanda e un più lento rientro dell’inflazione sia per prevenire i rischi per la stabilità finanziaria connessi con percezioni, anche se non interamente condivisibili nella sostanza, riguardo alla sostenibilità delle finanze pubbliche. 

Dopo l’aumento di 20 punti percentuali nel 2020, al 155 per cento, del rapporto tra debito e Pil conseguente agli effetti della pandemia e alle misure introdotte per alleviarne gli effetti, ne abbiamo osservato una, non pienamente prevista, decisa discesa nel 2021 intorno al 150 per cento. Un ulteriore calo di dimensione analoga è atteso per il 2022 e l’obiettivo di proseguire lungo questa tendenza può senz’altro essere perseguito. Le recenti misure del Governo, improntate alla prudenza, hanno contribuito al contenimento del differenziale di rendimento rispetto ai titoli di Stato decennali della Germania che oggi si situa attorno ai 180 punti base, un valore che resta comunque ancora di gran lunga superiore a quanto da noi stimato sulla base dei fondamentali della nostra economia. Da un lato, i rialzi dei tassi ufficiali costituiscono una difficoltà al momento certamente gestibile per le finanze pubbliche: grazie alla sua elevata vita media residua il costo medio del debito aumenta in modo contenuto e graduale e il rapporto tra debito e prodotto beneficia immediatamente della più alta crescita di quest’ultimo in termini nominali. Dall’altro lato, mantenere conti pubblici in ordine e, quindi, disavanzi ridotti e decrescenti nel tempo è cruciale per evitare tensioni finanziarie che, attraverso un aumento degli spread, potrebbero riflettersi in ulteriori, eccessivi, rialzi dei tassi di interesse che peserebbero anche sui finanziamenti di famiglie e imprese, con effetti negativi sugli investimenti.

Quest’ultimo scenario va evitato perché il Paese ha necessità di un prolungato periodo di espansione sostenuta degli investimenti, sia pubblici sia, soprattutto, 9 privati. Investire è essenziale per scongiurare il rischio che la crescita in Italia torni a stabilizzarsi sui bassi livelli registrati negli ultimi vent’anni. Gli investimenti pubblici e privati che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) dovrebbe consentire di realizzare sono una occasione importante, da non mancare. Il PNRR offre un’opportunità unica per colmare i ritardi nelle infrastrutture materiali e immateriali, migliorare il sistema di istruzione, aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, e quelli nelle nuove tecnologie; tutti fattori chiave per una crescita sostenuta della produttività in una moderna economia della conoscenza.

Il sistema produttivo italiano ha affrontato la crisi economica provocata dalla pandemia meglio di quanto non fosse accaduto durante la crisi finanziaria globale e la crisi dei debiti sovrani. Dopo quelle crisi le imprese più fragili erano uscite dal mercato e una progressiva riallocazione delle risorse produttive, ancorché in ritardo e ancora parziale, aveva avuto luogo. Anche grazie all’espansione di aziende più competitive e con strutture finanziarie più solide, soprattutto nel settore manifatturiero, la ristrutturazione ha permesso al sistema produttivo italiano di affrontare la pandemia da una posizione finanziariamente più solida, premessa per il forte rimbalzo dell’economia che abbiamo registrato nell’ultimo biennio. 

I livelli di indebitamento delle nostre imprese sono bassi nel confronto internazionale. Il loro debito finanziario si situa intorno al 70 per cento del Pil, di oltre 10 punti inferiore rispetto a dieci anni fa. In un confronto internazionale esso si colloca molto in basso tra le economie avanzate, in linea con il livello tedesco e notevolmente al di sotto di quello francese e della media dell’area euro (rispettivamente pari al 165 e al 110 per cento del Pil). La solidità finanziaria delle imprese si accompagna a quella delle famiglie il cui indebitamento finanziario è di poco superiore al 60 per cento del loro reddito disponibile e al 40 per cento del Pil, contro quasi il 100 e il 60 per cento nella media dell’area dell’euro. 

L’Italia non manca di eccellenze imprenditoriali: la produttività delle imprese italiane di medie e grandi dimensioni e la loro capacità di raggiungere i mercati internazionali sono paragonabili a quelle delle imprese francesi e tedesche di dimensioni simili. Il Paese può inoltre contare su una quota crescente di aziende dinamiche e innovative, che hanno contribuito al miglioramento della competitività e al ritorno in attivo della posizione netta sull’estero che dieci anni fa era negativa per oltre 20 punti percentuali di Pil e, dopo aver raggiunto un picco dell’8 per cento a fine 2021, lo scorso giugno era ancora intorno al 6 per cento nonostante l’eccezionale rincaro delle importazioni di energia. Il motore principale di questa tendenza è stata la crescita sostenuta dell’avanzo delle partite correnti, a sua volta determinato dal progressivo ampliamento dell’avanzo negli scambi di beni e servizi.

Restano, tuttavia, debolezze di rilievo. Le quote di occupazione e valore aggiunto delle medie e grandi imprese sono ancora troppo basse. In particolare, le imprese con più di 250 addetti – che in media dispongono di migliori risorse manageriali e di una maggiore capacità di sostenere i costi dell’innovazione e di adattarsi alla transizione verde – rappresentano meno di un quarto degli occupati, circa la metà del dato di Francia e Germania. 10

Rimane estremamente elevato il numero di microimprese con modesti livelli di produttività, la cui crescita è spesso ostacolata da pratiche gestionali carenti. Le imprese di servizi non finanziari con meno di 10 dipendenti rappresentano oltre il 40 per cento di tutti i lavoratori, il doppio di Francia e Germania. La loro specializzazione in attività tradizionali e le loro piccole dimensioni riducono la domanda di lavoratori qualificati, creando un circolo vizioso di bassi salari e limitate opportunità di lavoro, che scoraggia gli investimenti in istruzione, formazione e ricerca e sviluppo. Nonostante i progressi compiuti, stimolati anche dalle politiche economiche, la spesa in ricerca e sviluppo del settore privato rimane di gran lunga inferiore a quella di Francia e Germania, così come a quella media dei paesi avanzati.

Se le imprese italiane avessero la stessa struttura dimensionale di quelle tedesche, il prodotto per addetto nell’industria e nei servizi di mercato sarebbe superiore di oltre il 20 per cento, superando anche il livello della Germania. Le differenze nella composizione settoriale delle attività produttive nei due paesi giocano un ruolo meno importante, anche se non del tutto trascurabile, nello spiegare la bassa produttività (se l’Italia avesse la stessa composizione industriale della Germania, la sua produttività del lavoro sarebbe più alta, a parità di altre condizioni, di oltre il 5 per cento).

La distribuzione dimensionale delle imprese rimane, quindi, uno dei principali fattori di debolezza del nostro paese e, da questo, molti altri ne discendono (come la bassa spesa in ricerca, sviluppo e innovazione, sopra menzionata e che, insieme a una qualità del capitale umano da innalzare con decisione, costituisce un indubbio freno alla crescita economica). Affrontare questo problema richiede, tra gli altri, di introdurre riforme volte a creare condizioni più favorevoli alla crescita delle imprese, tali da determinare una sostanziale riduzione degli oneri amministrativi e burocratici che ostacolano gli investimenti, un sensibile aumento della qualità e dell’efficienza dei servizi pubblici e una consapevole diminuzione degli ostacoli alla concorrenza. Peraltro, le ricette di fondo sono note da tempo, e largamente condivise. È certo che occorre maggiore determinazione nell’attuarle”.

 

 

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